Naturalità

Dall’altro lato, a sud

Tropico del capricorno

qui fa freddo d’inverno, amico mio, e quasi mi viene voglia di scrivere una poesia. dall’altra parte il paesaggio è solo silenzio e l’anima vola smisurata.
               chiediamo se il tropico del capricorno sta per arrivare, perché il segno ruota al ritmo delle stagioni. lì deve essere estate e io mi metto sulle spalle questa tristezza incappucciata che pesa e non mi riscalda
le pagine dei giorni si girano ad una ad una. le notizie vengono da lontano in trentatre rotazioni. Non ci sarà una canzone libera nella vostra fretta votare  il vostro cuore che ci ricorderà?
 
siamo quieti. quasi sembra che ci siamo ibernati in questo azzurro vivo che taglia come ghiaccio in un giorno di sole.
ci chiedono di abitare questa lingua che si disfa in arcobaleno, di condire con lo zenzero questa scipita  maniera di comunicare
dove si spogliano affetti e si nascondono pozze di solitudine. devo attraversare l’oceano e bagnarmi di questa luce lustrale che mi fa rinascere.
 
ho paura di morire qui. assiderata, attraversa la mia testa una specie di neve insopportabile e sento le ossa spezzarsi
non ho scelto il tropico del cancro, non voglio andare all’indietro. in verità ho scelto la mappa e detesto che i luoghi mi ancorino alla terra.
la mia natura è errante e ha bisogno di calore per crescere. non chiedetemi parole che vestano ala gola di chi canta lontano.
io non posso tradurre l’anima né travestirla. ho bisogno di un bacile pieno di xicuembos, incensi, erbe aromatiche in cui aspirare la terra rossa che porto sempre a rinascere dentro di me .
Porto gli occhi giù per il tropico del capricorno apro le tende dell’immaginazione e il sud si disegna tra le dita di zafferano.
mi dici allora che ti sei innamorato di una ragazza mussulmana che danza la danza del
ventre e improvvisi sari svolazzano tra di noi,
portata in un miraggio dimentico l’origine dei nomi
chiedo alla radice del tempo che l’amore ci popoli della polvere delle stelle
e che incantata la voce danzi in questo mio ventre che abbraccia il tuo sguardo meravigliato.

Porto il nome di una nave

Ana mafalda una nave dell’impero mi ha fatto nascere tra due oceani. fu questo il nome che mi hanno dato quando mi hanno portato via e trapiantata da un emisfero all’altro.
sono nata tra frontiere liquide tra le onde  ho inventato iuna culla, uno scivolare di maree alla fine degli anni cinquanta
mio fratello più grande racconta che  a Kano
incantatori di serpenti suonavano il piffero e che i serpenti danzavano.
non mi ricordo. era ancora solo silenzio e volo sulle acque. danzavano in me due occhi grandi
molto rotondi e spaventati. in una fotografia dell’epoca
avevo un vestitino di piquet e riccioli intrecciati in un assenza di cornice color seppia.
porto nel sangue l’origine giudea  e fenicia gli occhi verdi
mare di mia madre non lo smentiscono e neanche il profilo sottile e  semita di mio padre. mi hanno portato fanciulla  nell’oriente indiano
dove sono nata nuovamente
e in questo lì qui, un nord di vicini muenomotapas
di antichissime miniere, è approdata la mia nave.
 
ai margini dello zambesi del revegué e del fiume maotize. come una nave d’opera di herzog nel suo fitzcarraldo
 
nelle miniere il carbone ricorda, ardente, discese transatlantiche al centro della terra.tra le pietre di quarzo e le foglie di mica per il grande fiume che ha incrociato i tunnel sotteranei di muchém mi navigo da matundo a tete.
gli ippopotami dormono piano nelle acque
di nome in nome qualcuno mi fa segno e guardando bene vedo che sono io. già un’altra nave. Ana mafalda. un battello o una canoa a motore che attraversano da sempre
zambesianamente fermi con lunghi e nostalgici fischi
di partenza in finisecolari odi trionfali le cascate
impreviste della sponda più antica del mondo.

Pessoa a Djone

Fernando pessoa a durban seduto a guardare il mare è già nato alvaro de campos. Aspetta l’arrivo dell’ode marittima la stanchezza della notte antichissima e serena. Accende un sigaro riflette su questo strano ingegnere che lo libera in una navigazione cosmopolita. Certamente lì, sulla sdraio dove se ne sta steso e da cui si apre il suo sguardo non sa nulla di manjonejones, non è mai stato ad un dumbanengue, non conosce maputo né tete il fumo del sigaro lo porta in altri luoghi in cui la nebbia spunta ad occidente. Potrebbe star seduto all’hotel polana in vacanza o a sbrigare piccole burocrazie o accidentali affari di passaggio. Straniero e sconosciuto con un buon calice di cognac davanti guarda la macchina da scrivere. Non vede gabbiani. Non sogna ma già usa gli occhiali. E’ solo un profilo con un cappello di paglia bianco nel paesaggio, forse chissà? Il volto inquieto del suo eteronimo bernando soares sfoglia  assente un libro dell’inquietudine.

Tutti i paesaggi a venire

rosso scuro  delira il suo canto
apre il cielo in due
le metà cadono intorno a me rimango splendente con gli
anelli della luna si apre il riso sveglia stesa sul letto avvolto di luce di
splendore
 
ci sono ombre cinesi sul cuscino le tende di paglia della finestra
e mi accarezzano
i rami crescono nudi le tue trecce una pioggia scintillante
mi guarda lungamente dalla finestra in un favola
 
stelle bianche gli occhi rotondi seguono il magico
accadere di una bacchetta nella mia mano
tocco l’età dove fischia la salamandra e lo spiritello sale sui rampicanti del sogno
altri occhi,  stupiti, si riempiono d’oro
due collane sparse all’alba
ricamati di allegria, fatti bella di questa strana luce
perché il tempo è circolare come l’arcobaleno e tu ruoti
 
in quest ’arco
un corpo di puro fuoco
in cui si accendono tutti i paesaggi a venire

Libro delle genealogie

nell’oscuro delirio il suo canto apre il cielo in due
le metà cadono intorno a me resto ammirata con gli anelli
della sfera
                                            incandescente
 
ci sono serpenti ombre sinuose sul cuscino
le tende di paglia si muovono sui rami crescono nude le aspre capigliature antiche una pioggia scintillante mi guarda
lungamente dalla finestra
disegna mappe luoghi senza ombrello
che avanzano in un racconto vero in cui entro
pian piano in un incrocio perduto di palaves schivi
volti si accendono e  seguono il magico succedere di un bastone, si liberano stelle cadenti? scoppiano mine? o soltanto fuochi di luna? uomini con maschere di leone, di iena, di rinoceronte, danzano lo nhau corrono nella notte i muzimos convocati a pombe
animali liberi invadono l’allegra comitiva nel mezzo di ululati e parole d’ordine segretissime tocco così l’età dove si stende la lingua lunga del camaleonte che prende gli insetti con la calma molto antica di un mftiti mentre esercita la lettura del destino
sull’ irta presenza della luna crescono gli occhi rotondi di chi illumina si riempiono di suoni
le collane agitate
al battere della pioggia e della latta nell’aria un sospiro denso di sortilegi trasporta alligatori lanciati  in un cadere secco
sulle sponde si spandono in una specie di rete in cui io mi catturo in frammenti o mi faccio catturare
pietre pietrine pezzetti di ossa quello che resta sulle sponde guadagna nuovamente il corpo delle acque  del fiume o del cammino e in una voce che mi nasce sento la genealogia: ricama per me adesso di allegria la pianta del tuo piede
che è la radice di questa terra e ti copre la pelle di cassanha
infilati in questo odore di canho di questa strana luce ardente
che si indovina quando mi guardi
perché il tuo tempo è la spirale dei fiumi
ruminata
è la sorgente di nipa la tua foce nelle nostre ombre
e non c’è parola che tenga strette queste lune queste visioni di uno xipoco che ti abbraccia
ti  fai donzella in me, inerme
e pietra  dopo pietra improvvisamente fai ruotare un corpo di puro fuoco
in cui si accendono tutti
i paesaggi ancora a venire                 
                                                           nell’oscuro delirio
il suo canto                                       
                                                           apre il cielo in due
le due metà cadono vicino e rimani ammirata con gli anelli della sfera
incandescente
che mi fa ruotare e ti fa ruotare dentro di me

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